Lo scenario economico e le sfide per l’industria dei beni di consumo

16 aprile 2025 – In un contesto globale che vede le previsioni sul PIL globale in calo, con prospettive peggiorate dai contraccolpi della politica economica e commerciale degli Stati Uniti, le famiglie italiane vedono una leggera crescita della spesa per consumi. Le vendite al dettaglio risentono però del clima di incertezza, con il rallentamento economico che favorisce gli acquisti presso il discount.

Oltre ai trend quantitativi, non vanno dimenticati i cambiamenti nei driver di acquisto dei prodotti di largo consumo: sulla base di un’indagine diretta realizzata da Nomisma per conto di IBC, i consumatori italiani vedono negli aspetti salutistici, territoriali e di sostenibilità i tre macro fattori che influenzeranno maggiormente le scelte di consumo nei prossimi anni.

Queste le evidenze di scenario presentate da Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma in occasione dell’evento “Industria dei beni di consumo ed evoluzione del contesto competitivo. Strumenti e soluzioni per la trasformazione digitale” organizzato da IBC, l’Associazione delle Industrie dei Beni di Consumo.

Le sfide future per la filiera del Largo Consumo

Nel prossimo futuro l’”inverno demografico” in cui è entrata l’Italia porterà inesorabilmente a cambiamenti sui consumi (anche a livello quantitativo) obbligando così le imprese a guardare sempre di più all’export malgrado un contesto geopolitico fortemente instabile e orientato a politiche protezioniste.

In questo scenario, l’innovazione digitale rappresenta non solo una sfida, ma soprattutto un’opportunità per rispondere concretamente alle evoluzioni del mercato. Oggi, però, sono soprattutto le imprese del settore alimentare a evidenziare una carenza nelle competenze interne per lo sviluppo della digitalizzazione, fattore che diventa strategico per le PMI del largo consumo sempre più strette tra un mercato interno saturo e in progressivo ridimensionamento e limiti strutturali e dimensionali necessari ad una maggior internazionalizzazione.

Il focus sull’Emilia-Romagna

Relativamente all’Emilia-Romagna, a fronte di 250 miliardi di euro di fatturato a livello nazionale, sono 47 i miliardi prodotti in regione, dove le oltre 4.700 imprese attive occupano circa 67 mila addetti per un valore aggiunto di quasi 7 miliardi di euro (il 17% del valore aggiunto generato dall’intero settore manifatturiero regionale).

Guardando alle performance, negli ultimi cinque anni il fatturato e il valore aggiunto sono cresciuti di oltre il 35%, per quanto tale aumento non sia stato “trasversale” tra tutte le imprese del settore. Mentre quelle medie (10-50 milioni di euro di fatturato) e grandi (oltre 50 milioni) hanno registrato crescite oltre la media del settore, quelle più piccole (sotto i 2 milioni di euro) hanno subito una riduzione nel fatturato di oltre il 10%.

La divergenza nei risultati economici ottenuti deriva anche dal diverso grado di internazionalizzazione che a sua volta è collegato alle dimensioni delle imprese: a fronte di un calo di fatturato delle piccole e piccolissime aziende del largo consumo, quelle medio-grandi hanno anche potuto contare su un mercato estero che ha portato ad una crescita del valore dell’export regionale del 54% in 5 anni, sebbene i dazi USA rendano più incerto lo scenario commerciale internazionale.

Per quanto l’Unione Europea rappresenti la prima area di sbocco dei prodotti di largo consumo emiliano-romagnoli (57% dell’export di settore), gli Stati Uniti incidono per oltre il 10%, con punte fino al 22% nel caso delle bevande e del 15% per i prodotti lattiero-caseari. Ed essendo la regione rinomata per le proprie produzioni Dop e Igp, sono questi ultimi prodotti ad esprimere la maggior incidenza del mercato statunitense sulle proprie esportazioni che arriva fino al 30% dei volumi esportati nel caso del Prosciutto di Parma e dell’Aceto Balsamico di Modena, passando per un 23% nel caso del Parmigiano Reggiano.

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