Dal “Rapporto Coop 2023 – Consumi e stili di vita degli italiani di oggi e domani” – redatto dall’Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori-Coop) con la collaborazione scientifica di Nomisma, il supporto d’analisi di NielsenIQ e i contributi originali di Circana, GS1-Osservatorio Immagino, CSO Servizi, GfK, Mediobanca Ufficio Studi – gli italiani risultano sereni e consapevoli ma più poveri. Di fatto non possono che convivere con una economia familiare sempre più ristretta e che obbliga a moltiplicare le rinunce quotidiane.
In questo scenario calano le compravendite immobiliari (-14,5% rispetto al 2022), si riducono gli acquisti delle auto nuove e crollano gli acquisti dei beni tecnologici. In particolare, le vendite di smartphone nuovi si sono ridotte del 10% negli ultimi 12 mesi (oltre 1,3 mln di telefoni venduti in meno). In uno sforzo di sopravvivenza – e forse di sostenibilità – l’usato o il ricondizionato sostituisce il nuovo (sono 33 milioni gli italiani che nell’anno passato hanno venduto o acquistato beni usati).
E, dopo aver riguadagnato nel primo semestre i livelli pre pandemici, non solo gli italiani si sono ancora concessi pranzi e cene con estrema oculatezza durante l’estate, ma passeranno nuovamente l’autunno in casa (il 51% dichiara di volere ridurre il numero di occasioni conviviali fuori casa nei prossimi 12/18 mesi).
La triste rinuncia all’identità alimentare italiana
Indubbiamente l’Italia è la nazione del buon cibo e in cui l’alimentazione è una componente fondamentale dell’identità del Paese. Se gli italiani – a differenza degli altri Paesi europei – sono disposti a tutto pur di non rinunciare alla qualità di quello che mangiano, è anche vero che molti di loro sembrano in procinto di arrendersi all’inflazione che ha rincarato di oltre il 21% il costo dei beni alimentari e che non promette di arrestarsi prima dei prossimi due anni.
I carrelli degli italiani diventano leggerissimi: -3,0% la variazione delle vendite a prezzi costanti nei primi 7 mesi dell’anno. Dopo la riduzione delle quantità acquistate, con l’arrivo dell’autunno – e l’ulteriore aumento dei prezzi – gli italiani sembrano pronti a cambiare nuovamente strategia grazie ad un quotidiano impegno per contenere gli sprechi, alla rinuncia ai prodotti non strettamente necessari e a quelli a maggiore contenuto di servizio. Così la spesa diventa più frequente, l’attenzione al risparmio fa piazza pulita della fedeltà al canale di acquisto, discount e Mdd fungono da ancore di salvezza.
In questo contesto, se è sempre più articolata l’identità alimentare della parte economicamente e culturalmente più attrezzata del Paese, nell’ultimo anno sono raddoppiati quanti – oramai 1 italiano su 5, soprattutto baby boomers e appartenenti alla lower class – dichiarano di aver perso ogni riferimento identitario abbandonando i dettami della cultura tradizionale, delle tipicità e del territorio. Una deriva che potrà continuare nei prossimi mesi e metterà in discussione il concetto di alimentazione italiana e dieta mediterranea, a partire dal consumo di frutta e verdura (-15,2% negli ultimi due anni e per il 16% degli italiani si ridurrà ancora).
Ciò peraltro non significa che non si facciano strada, magari ancora in fasce minoritarie della popolazione, nuove tendenze a tavola.
Già oggi, 5,1 milioni di italiani dichiarano di alimentarsi a spreco zero, 2,8 si definiscono “reducetariani” (ovvero che hanno ridotto il consumo di carne) e 1,4 sono i cosiddetti “climatariani” (ovvero coloro che usano prodotti a basso impatto C02).
A farne le spese è soprattutto la carne: il 39% del campione dichiara di essere disposto a ridurne il consumo. D’altronde sulla tavola di un futuro nemmeno troppo lontano, della carne rimarrà solo il sapore: nella top 5 dei nuovi cibi che secondo gli italiani compariranno nei prossimi 10 anni figurano i prodotti a base vegetale con il sapore di carne (31%) e la carne sintetica prodotta in laboratorio (28%).
L’uragano prezzi ridisegna gli equilibri della filiera alimentare
L’eccezionale crescita dei prezzi degli ultimi due anni ha cambiato in profondità anche gli assetti della filiera alimentare. Nel 2022 l’incremento dei prezzi delle materie prime e l’impennata dei costi energetici hanno fatto esplodere i prezzi alla produzione, mentre le difficoltà della domanda finale hanno obbligato i retailer a contenere l’impatto finale sui prezzi al consumo. Con ricadute pesanti sui bilanci di entrambi gli operatori della filiera.
L’analisi annuale di Mediobanca evidenzia come nel 2022, per entrambi gli attori della filiera, si sia verificata una significativa diminuzione del valore aggiunto e, a cascata, della marginalità operativa. Un impatto negativo che non cambia però il differenziale positivo delle performance a favore degli operatori industriali. In sostanza, le imprese dell’industria alimentare – e segnatamente quelle di maggiori dimensioni – evidenziano una redditività strutturalmente superiore a quella della grande distribuzione alimentare. E anche nel difficile frangente del 2022 la redditività dei mezzi propri dell’industria fa segnare una diminuzione meno pronunciata di quella della distribuzione.
Nel 2023, invece, pur a fronte di un rapido rientro sui valori storici dei costi delle commodities alimentari e dei costi energetici, non si è manifestata alcuna significativa riduzione dei listini dell’industria alimentare. Anzi, si è assistito ad ulteriori aumenti, addirittura superiori a quelli del 2022; nello stesso periodo l’ulteriore logoramento del potere d’acquisto delle famiglie ha nuovamente impedito invece agli operatori della distribuzione di poter riversare al consumo l’intero incremento. In questo modo, la comparazione tra l’andamento dei prezzi industriali e quelli al consumo continua ad evidenziare un differenziale negativo che non ha eguali negli ultimi decenni. In sostanza, per la distribuzione i prezzi all’acquisto restano strutturalmente superiori a quelli praticati alla vendita. Anche nei prossimi anni divergeranno le strategie di industria e distribuzione. I retailer si concentreranno sulla marca privata per avere un governo delle filiere produttive e dei prezzi alla vendita, mentre la grande industria al momento sembra più orientata a difendere i margini concentrandosi sull’innovazione di prodotto e la difesa dell’equity del proprio marchio.
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Immagine in evidenza di: Rapporto Coop 2023/italiani.coop