Arriva l’obbligo di stimare l’impatto delle attività aziendali per l’intero ciclo di vita
Dopo una gestazione assai travagliata i nuovi European Sustainability Reporting Standards, (ESRS, creati dalla Corporate Sustainability Reporting Directive che sostituisce la vecchia Non Financial Reporting Directive e la DNF) sono legge. Formalmente dovremo aspettare fine anno per la pubblicazione nella gazzetta ufficiale, ma le chances che qualcosa cambi da qui ad allora sono nulle.
Gli standard apparentemente riguardano solo 50-60 mila aziende in Europa e circa 5-6mila in Italia ma in realtà, nel giro di pochi anni, cambieranno la reportistica di tutte le imprese: grandi, medie, piccole e micro.
Il canale di trasmissione dalla grande alla micro è duplice: da un lato la piccola impresa vende i suoi beni e servizi ad una più grande che gli chiederà informazioni specifiche. Dall’altro c’è la banca, anch’essa soggetta alla direttiva, che richiederà le informazioni ESG a tutti i clienti per la sua reportistica.
Insomma, gli ESRS sono ineludibili, tanto vale capire come adattarsi.
La più grande innovazione contenuta negli standards è il tema dell’impatto. L’Europa passa dalla singola materialità (l’analisi dei rischi) alla doppia materialità (rischi e impatti). Calcolare gli impatti potenziali dell’attività d’impresa non è sempre banale, e finora è stato il presidio di pochi virtuosi. Qui c’è la prima sfida per le aziende. Per le istituzioni finanziarie, invece, il cui impatto dipende da quello dei propri clienti/investimenti, la sfida di aggregare dati di impatto del cliente che produce pomodori e di quello che fa software è un vero e proprio malditesta.
Oltre all’impatto, all’impresa vengono chieste analisi più granulari e rigorose: finisce l’era dei “progettini” benefici nel vicinato e arriva l’era della nuova analisi di materialità, ovvero il processo nel quale l’impresa deve analizzare impatti e rischi a monte e a valle della propria produzione, ben al di fuori del perimetro aziendale.
Il cuore dei nuovi standard è proprio lì, nella analisi di materialità: chi fa formaggio non può più ignorare le emissioni di metano, chi fa macchine deve chiedersi da dove vengono i metalli che usa etc. Non farlo sarebbe indifendibile legalmente. Perché di difesa legale si parlerà, visto che il nuovo bilancio di sostenibilità andrà certificato. E se i revisori non vogliono aggiungere scandali a scandali dovranno attrezzarsi per comprendere la qualità di queste analisi di materialità su temi completamente estranei ai revisori: la natura, il clima, il benessere di lavoratori, fornitori e comunità etc.
La possibilità di controversie legali con i costi per prevenirle (consulenze) e poi gestirle (gli avvocati) sono molto alte a causa della versione finale degli ESRS. Inizialmente, infatti, gli standard avevano un set di KPI sempre materiali (ovvero obbligatori), come accade nelle regole per i fondi e per le banche: pochi KPIs, uguali per tutti e sempre obbligatori.
In questo caso però la legge ha subito una sterzata repentina per le pressioni provenienti da Business Europe (la Confindustria Europea). In nome di una battaglia più ideologica che razionale (contro KPIs obbligatori e la reportistica di sostenibilità in generale), Business Europe ha sconfitto la finanza e gli esperti della società civile in una vittoria che rischia di essere assolutamente pirrica.
In mancanza di KPI fissi, infatti, la responsabilità legale dei KPI scelti dall’impresa come rilevanti ricadrà interamente su impresa e revisore. Se l’impresa dovesse ‘dimenticare’ un KPI materiale, come il metano nell’allevamento di mucche o le origini dei metalli nella manifattura, si esporrebbe ad una causa di greenwashing. Che non si configurerà più come semplice ‘comunicazione ingannevole’, ma avrà gli estremi del falso in bilancio.
L’onere di dimostrare che l’analisi di materialità è ben fatta e che non ci sono omissioni sostanziali è interamente a carico dell’impresa. E con quell’onere i costi degli inevitabili consulenti e dei consulenti dei revisori. Oneri per i quali imprese e istituzioni finanziarie potranno ringraziare solo la miopia di Business Europe.
In questo contesto di incertezza e potenziale rischio, le associazioni di categoria potrebbero giocare un ruolo salvifico, mettendo in comune risorse all’interno di progetti di formazione per le imprese e di provvista di proxy e studi che rendano le informative di bilancio solide e inattaccabili. Il fine dei nuovi standard è di farci pensare a come ‘facciamo economia’, non di riempire volumi di parole. La differenza tra chi questa riflessione la fa sul serio e chi penserà solo alla compliance sarà evidente.
Oggi, con i nuovi standard, inizia un viaggio che richiederà il contributo di molti perché a guadagnarci siano davvero tutti: natura, persone e imprese. Nomisma, di questo potete star certi, farà la sua parte.
Per maggiori informazioni scrivi a esg@nomisma.it
di Luca Bonaccorsi, membro del gruppo esperti di EFRAG incaricato dalla Commissione Europea per la redazione degli ESRS. Co-autore dei criteri tecnici della Tassonomia UE.
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